BANKSY

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“Ecco la primula rossa dei graffiti smascherato il volto di Banksy”

TANA Banksy! Visto, beccato, hai perso! La partita a nascondino è finita, sempre che il trust di cervelli che gli dava la caccia ci abbia azzeccato, naturalmente, e che il più celebre street artist del pianeta abbia davvero quel nome da impiegato della City, Robin Gunningham. Strumenti da intelligence antiterrorismo per una soddisfazione infantile, grida d’esultanza come bambini a ricreazione, con un grande pappappero mediatico la clandestinità della primula rossa degli intonaci sembra terminata. Ma chi ci guadagna? E cos’era in gioco davvero? C’è da meravigliarsi semmai che l’identità di Banksy sia rimasta celata per quasi trent’anni, e questo nel mondo reale, mica nella Gotham City di Batman; un mondo dove il graffitista di Bristol ha vissuto non solo pitturando muri in mezzo mondo, ma scrivendo libri, e dunque parlando con editori, organizzando festival, e dunque parlando con artisti, curando mostre, e dunque parlando con istituzioni culturali, incassando royalties, quindi parlando con commercialisti. Se Zorro si fosse comportato così, il serial sarebbe finito alla prima puntata.

C’era dunque una intera comunità che proteggeva il nome dietro allo pseudonimo, perché? Bisogna rivedere il concetto di anonimato nell’era in cui siamo tutti uomini di vetro, trasparenti tracciati e googlabili. Non protegge più una clandestinità ma celebra una esibizione; non tutela la privacy ma potenzia la sovraesposizione. Dunque più che anonimato, trattasi di pseudonimato, alias, maschera sociale, abito sgargiante del supereroe, appunto, che cela almeno quanto svela.

Quest’ossimoro dell’anonimato celebre è poi lo spirito stesso dell’arte di strada.

Che inizia, si sa, negli anni Settanta con i tag degli adolescenti marginali delle metropoli americane, e i tag cosa sono se non firme, ovviamente fittizie, sigle, monogrammi, cifre ricamate sulla camicia linda della città, loghi, marchi personali da ripetere più che si possa, bombing, ovunque ci sia uno spazio libero, per saturare il paesaggio urbano, per appropriarsene, per marcare il territorio quasi caninamente. Banksy, certo, appartiene a un’altra tradizione, quella che viene dalle pitture rupestri di Lascaux e passa per i muralisti messicani, pittura magica, comunitaria, pittura pubblica, efficiente e politica, Banksy del resto si è costruito l’aura di combattente anti-sistema, vendicatore visuale dei torti del capitalismo; ma ha rispettato la consegna dell’invisibilità firmata, ardito equilibrio che permette ad ogni genio delle bombolette spray e degli stencil di essere parte di un movimento collettivo senza tuttavia perdere un grammo della propria individuale riconoscibilità. Togliere la maschera significa distruggere il gioco? Superman smascherato in Clark Kent perde i suoi superpoteri? E che ne sarà di Bansky-Gunningham adesso? Lo denunceranno per imbrattamento? Lo inviteranno alle inaugurazioni delle mostre? Ma Bansky è uno, i guerriglieri dell’aerosol sono tanti, e si sa, finché rimangono giocatori nascosti il rimpiattino non è finito, uno può sempre sbucare a sorpresa, e allora tana, liberi tutti.

MICHELE SMARGIASSI

LONDRA, MAPPATO DA UN TEAM DI SCIENZIATI

Sweep at Hoxton, una delle opere realizzate da Banksy a Londra. A PAGINA 19 LONDRA. Dimmi dove vai e ti dirò chi sei. Una sofisticata tecnica usata per identificare criminali e terroristi avrebbe definitivamente smascherato Banksy, l’artista misterioso che lascia i suoi graffiti sui muri di Londra e di mezzo mondo. Il “Geographic profiling” (profilatura geografica) è un metodo statistico basato su informazioni pubbliche: si raccolgono tutti i luoghi collegati in qualche modo con la persona da individuare e voilà, come in quei disegni in cui si devono connettere tanti puntini con una tratto di matita per fare emergere una figura, affiora l’identità più probabile. Naturalmente un nome e cognome a Banksy era stato già dato, otto anni or sono, da un’investigazione del Daily Mail: il quotidiano londinese aveva rivelato che il rivoluzionario graffitaro si chiama Robin Gunningham ed è originario di Bristol. Ma il giornale non aveva spiegato come fosse arrivato a questa conclusione. E per quanto avesse cercato conferme da familiari, compagni di scuola e conoscenti del Gunningham in questione, sull’identificazione era rimasto qualche dubbio.

Per risolvere il mistero ci è voluto un team di scienziati della Queen Mary University, prestigiosa università della capitale britannica. Utilizzando la mappatura di 140 posti in cui Banksy ha fatto un disegno su un muro e di tutti gli indirizzi che hanno avuto a che fare con lui, gli studiosi hanno confermato l’identificazione effettuata dal Mail: il vero nome dell’artista senza volto è davvero Robin Gunningham. Non solo: la Bbc rivela che gli avvocati di Banksy sono entrati in azione nei giorni scorsi per bloccare la pubblicazione dello studio sulla rivista scientifica Journal of Spatial Science, a dimostrazione che i ricercatori della Queen Mary hanno effettivamente colto nel segno. Ma i legali sono riusciti soltanto a rimandare di qualche giorno l’apparizione dell’articolo, intitolato “Tagging Banksy” (Scoprire Banksy). Un aspetto della scoperta è la fine di un giallo che ha incuriosito a lungo il mondo dell’arte: il pittore “maledetto”, la primula rossa dei graffiti, che dai primi Anni ’90 in poi si è divertito a “firmare” le sue proteste contro l’establishment, il razzismo, gli eccessi del capitalismo, vergando immagini ironiche o allusive sui muri delle città, ha perso definitivamente l’anonimato. Un altro aspetto, ed è questa la ragione che ha spinto gli scienziati inglesi a indagare su Banksy, riguarda l’efficacia della tecnica in questione: «I nostri risultati riaffermano studi precedenti secondo cui per esempio un’analisi geografica di atti di violenza o terrorismo a bassa intensità permetterebbe di individuare basi criminali o terroristiche prima che abbiano luogo azioni più gravi», osserva il biologo Steve Le Comber, uno degli autori della ricerca. Un avviso agli eversori: il Grande Fratello vi vede. Ma la terza lezione dell’iniziativa è che, se una tecnica simile venisse usata sistematicamente, nessuno potrebbe più nascondersi da nessuna parte: basterebbe seguire le tracce lasciate nella vita precedente, i piccoli segni di altre apparizioni, per scoprire chi è e dov’è. A parte gli artisti che scelgono nomi d’arte perché li preferiscono al proprio nome anagrafico, ci sono quelli che vorrebbero indossare una maschera per tutta la vita, usando uno pseudonimo: con la “profilatura geografica” servirebbe a poco. È la rivoluzione digitale, bellezza: non per niente, quando si vuole sapere qualcosa di più di una persona, si dice “dagli una googlata”. Quella usata per Banksy è una “googlata” che farebbe cadere la maschera a chiunque.

ENRICO FRANCESCHINI

ARTICOLI DEL 5 MARZO 2016, LA REPUBBLICA

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One Response to BANKSY

  1. Anonimo Rispondi

    5 marzo 2016 at 22:22

    Se questo signore guadagna ,come dicono, milioni di sterline,ci sarà pure il fisco occupato a identificarlo,o no?

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