Risposta all’articolo “Noi, i ragazzi della generazione”

Risposta all’articolo “Noi, i ragazzi della generazione”

Articolo comparso sul Corriere magazine del 19 aprile 2008, di Lorenzo Viganò

 

D’indubbio successo la mostra Street Art, Sweet Art tenuta al Pac di Milano fortemente voluta dall’assessore Sgarbi e allestita dal suo stretto collaboratore  Alessandro Riva.

Ma senza entrare nel merito della questione del livello artistico di questi graffittari sarebbe stato completo l’articolo se solo l’ennesimo giornalista, che riporta con enfasi giovanile un fenomeno che spesso arte non è, avesse ricordato anche le parole del critico d’arte, oggi Assessore, Vittorio Sgarbi.

Per chi si occupa d’informazione di sicuro non poteva mancare alla conferenza stampa che apriva a poche ore l’apertura della mostra.

Ebbene è solo analizzando le parole di Vittorio Sgarbi che possiamo veramente capire l’entità del fenomeno. Stranamente le parole dell’Assessore non sono mai state riportate dai giornalisti della carta stampata che invece si sono limitati ad enfatizzare frasi che avevano, come tipica caratteristica di chi le pronunciava,  ben altro significato.

Senza entrare nel merito delle affermazioni provocatorie che come geniale border line ama giocare sugli equivoci, questa volta forse la vera provocazione l’hanno fatta alcuni media pro graffittari.

Decontestualizzando le parole del critico hanno dato un significato libertino alle parole dell’Assessore facendo emergere una realtà vandalica e di degrado urbano come una nuova e bellissima forma di arte da rendere le città più belle e attraenti.

Le foto apparse sul settimanale di muri imbrattati e panchine coperte di scritte, che nella realtà che ci circonda possiamo assicurare non sono arte, accompagnate da giovani sorridenti che posano  come davanti ad un nuovo modo d’intendere la vita mi lascia perplesso.

Vorrei collegarmi alle parole di Sgarbi, chiaramente eliminando un po’ di colore per non offendere nessuno, su cosa pensava degli autori che esponevano al Pac in questi giorni.

Senza entrare nel merito della dissertazione il critico giustamente affermava che il fenomeno dei graffiti trova le sue radici nell’illegalità, nel fatto che è un fenomeno che si sviluppa sulle strade e che non ammette possibilità di essere “inscatolato” tra le pareti di un museo che così facendo diventa gabbia di libertà. Questa forma d’espressione sia nella forma che nel contenuto è trasgressione allo stato puro e chi fa ciò è cosciente di commettere un reato.

E’ l’adrenalina scaturita in azioni notturne ad essere la Musa ispiratrice di questi ragazzi. Da questa premessa il non senso di una mostra sui graffiti di strada e l’annunciata morte di quello spirito libero di trasgressione che anima la mostra sulla “dolce arte di strada”.

Sgarbi adulandoli  al Leoncavallo e giocando con i protagonisti  li ha imprigionati in un museo, consacrazione funerea di giovani che vogliono solo due cose: successo e fama. Nulla di male su questi due obiettivi se non si dimenticasse che le radici della loro arte sono ben altre: la non omologazione e l’illegalità.

La rottura della forma e del contenuto svuota di significato lo stesso messaggio che arriva solo come sottoprodotto di una cultura suburbana che racconta uno spaccato di una realtà non sempre veritiera. L’espressione spontanea diventa un’azione di marketing, il colore usato un modo astuto per attirare le persone più condizionabili ad andare alla mostra. Quella del Pac, nonostante l’atmosfera di gioia e trasgressione, è la morte dell’arte graffittara ed è l’elogio all’opportunismo  giovanile che davanti ai soldi sarebbe disposto ad imbrattare un’intera città pur di farsi notare.

La cosa che maggiormente mi stupisce è che a questo adonismo di alcuni molte persone ne subiscono ormai assuefatta gli attacchi e inermi davanti a questo fenomeno vandalico si lasciano cullare dalle parole di alcuni che parlando di democrazia dell’arte non considerano la prevaricazione sulla libertà di altri e sul diritto di avere il proprio muro pulito.

Anche se l’articolo parla con un certa tranquillità della “generazione pop up” come di una rivoluzione creativa che fa nascere una  moda, probabilmente non si rende conto dei danni che le amministrazioni pubbliche e i privati devono affrontare per arginare questo graffiante movimento artistico.

Fare una distinzione tra ciò che arte e ciò che non lo è risulta difficile  se non si vogliono fare discorsi filosofici. Ma visto che siamo in presenza di un arte che del consumismo ed dell’esaltazione dell’oggetto di uso comune ha le sua fondamenta  non dovremmo dimenticare che la proprietà pubblica e privata è ancora un bene di tutti e che forse la vera democrazia è la non prevaricazione di un messaggio visivo su supporto altrui.

 

Andrea Amato

 

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