I GRAFFITI E L’ESEMPIO DI NEW YORK

IL COMMENTO

AL SINDACO uscente di New York, Michael Bloomberg, come al suo predecessore Rudolph Giuliani, i graffiti sui muri della città non piacciono. Li ha definiti «un segno di perdita di controllo e di degrado» e ha osservato che essi «violano la proprietà di qualcuno e la proprietà pubblica», con ciò sostenendo che dovrebbero essere proibiti. Ma la performance di Banksy, misterioso street artist di origini britanniche, che si è esibito per un mese da Staten Island all’Upper West Side eludendo la polizia, pare abbia conquistato la Big Apple che da sempre non si risparmia nulla in fatto di novità.
ANCHE quando c’è il sospetto che possa trattarsi di astute e ben congegnate operazioni commerciali. Dal canto suo Banksy dice di non credere a quello che scrivono i giornali. A lui basta sapere che alcuni suoi stancil siano finiti nelle case di Christina Aguilera e Kate Moss. Torino non è nel circuito artistico di Banski ma non per questo i muri dei suoi edifici, dal centro alla periferia, sono in difetto di quei graffiti sui quali i pareri sono diversi e spesso contrapposti. Poco più di un mese fa, dopo un lavoro che era durato quanto durano normalmente i lavori pubblici e privati italiani, una prima facciata dell’ospedale San Giovanni Antica Sede di via Cavour, è stata “spacchettata” e riconsegnata in tutta la sua eleganza architettonica al panorama di piazza Valdo Fusi come per ripagarlo di una vecchia e inguaribile ferita infertagli con l’orrendo parcheggio che lo ha sconciato e compromesso negli anni Novanta.
Appena qualche giorno e sulla facciata pulita dello Sgat, quella che dà sulla piazza, sono comparsi come per incanto altre tracce del passaggio creativo di qualche graffitaro. Dopo due settimane la stessa sorte è toccata alla facciata di via Cavour e c’è da scommettere che non sia finita.
L’area attorno a piazza Cavour, per dire il cuore della città, sembra essere la tela prediletta dei graffitari, termine che viene usato largheggiando nell’accreditare loro indistintamente un talento artistico. E’ in questa zona della città che si scatena l’estro senza paternità con un’insistenza maniacale.
Quello del palazzo dello Sgat – quasi tre secoli e mezzo di storia e la mano di Amedeo di Castellamonte – in ordine di tempo è forse il caso più vistoso. Ma se ne contano decine di altri su pietra, marmi, intonaci, a volte anche su portoni in legno. Ogni tanto se ne parla e, naturalmente, si creano gli schieramenti degli estimatori e dei detrattori.
Ne viene fuori un bel dibattitoe poi tutto finisce, come si dice, a tarallucci e vino. Si ripulisce qualche facciata ed è come creare una nuova tela per la prossima esibizione. Da qualche tempo, messi alle strette da altri bisogni più urgenti e meno di “facciata” non se ne parla proprio più. E del resto potrebbe sembrare un lusso da tempi di opulenza quello di mettersi a discutere dei muri quando non si riesce neppure a trovare i soldi per rifare le strade in maniera decente e non con rattoppi. Eppure siamo riusciti anche a fare una legge che vieta questa forma di creatività che per alcuni è arte e per altri un abuso. Col pacchetto sicurezza di Maroni è stato introdotto il reato di imbrattamento dei muri che è anche penale. Inutile dire che, salvo casi rarissimi, l’effetto di questa legge è stato pari a zero. Come ci ricorda l’assessore Ilda Curti Torino ha provveduto a sostenere con misure specifiche la street art, mettendo a disposizione appositi spazi per la comunità degli artisti che ha apprezzato. Ma gli “scarabocchi”, perché di questo si tratta in molti casi, non hanno nulla a che fare con i graffiti come quello dedicato alla Thyssen in corso Valdocco o altri su spazi autorizzati. Si pone allora il problema della prevenzione per risolvere il quale gli strumenti di controllo sono complessi. Per poter intervenire si dovrebbe sorprendere l’autore all’opera con la bomboletta dello spray in mano e la vernice fresca sul muro, cosa difficile dal momento che egli si esercita prevalentemente di notte e probabilmente non da solo: difficile ma non impossibile a meno non si consideri
questo come i tanti altri reati derubricati a piccolo gesto tollerabile. Ma c’è anche la disposizione che impone ai proprietari di immobili di ripulire ogni dieci anni le facciate delle case, operazione nella quale si devono ritenere compresi gli “imbrattamenti” che non possono essere imputati allo smog o alle naturali offese del tempo. Il che, francamente, diventa una iniquità. Come dire il danno e le beffe. “Torino che non è New York” cantava una canzone degli anni Settanta e dunque si deve prevedere che sui suoi muri continueranno gli “italian graffiti”.

Articolo di SALVATORE TROPEA apparso su la Repubblica del 2 novembre 2013

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