GLI ANTIDOTI CONTRO I «BRAVI»

Contro gli imbrattatori che feriscono l’estetica di Bologna e mortificano i diritti di proprietà, sia essa pubblica che privata, si lanciano incessantemente grida locali, come al tempo dei «bravi» resi famosi da Manzoni nei I Promessi Sposi. Li si minaccia di indagini e repressione che, come giustamente sostiene il procuratore Valter Giovannini, non bastano. E noi aggiungiamo: lasciano il tempo che trovano. Alle tante parole che fin qui si sono spese contro i nostri «bravi», si sommano i tanti denari che richiede il ritorno al bello dei nostri edifici e portici. Un’alta marea di soldi pubblici e privati che risolve poco o nulla, giacché nel buio della notte (ma ormai anche alla luce del giorno) gli imbrattatori s’impegnano affinché gli sgorbi si prendano la loro rivincita. Per sfuggire alla sindrome della tela di Penelope la comunità bolognese guidata dal sindaco dovrebbe mettere in campo almeno tre azioni. La prima è un moto di rivoluzione del corpo sociale della città, tale che, come
afferma Giovannini, gli imbrattatori vengano disprezzati e isolati. Qualcosa di simile al rituale delle antiche
città greche per espellere gli indesiderati dalle loro comunità. La seconda è un’azione di prevenzione che
dovrebbe innescarsi nelle scuole, sin dalla più tenera età degli allievi. L’educazione al patrimonio culturale,
storico ed estetico della città apre la porta sulla terza azione che si svolge nel paesaggio dell’età digitale.
Verrebbe da dire «è la tecnologia, stupido», che con la sua spada taglia l’intricato nodo gordiano strettosi
intorno a Bologna e intrecciato dagli scarabbocchi e dalle scritte sui muri. Tensione e allerta sociale stanno
prendendo piede. Sulla prevenzione nelle scuole attendiamo notizie dal Comune e dal Provveditorato agli
Studi. Incidentalmente, trovandoci in presenza non di un temporale ma di una tempesta che mette a repentaglio il patrimonio estetico di Bologna, ci chiediamo perché il sindaco non emetta dei bollettini «meteo» sugli interventi di contrasto in corso d’opera. Sul fronte della tecnologia digitale, siamo immersi nell’età delle caverne. Eppure, basta sfogliare una pagina di Google per apprendere quanto ricca di soluzioni sia l’età del digitale. Niente vernice spray: oggi i graffittari agiscono con puntatori laser e bombolette spray digitali che al posto della vernice emettono una luce monitorata da un sistema di visione artificiale per ricreare con un proiettore l’immagine «spruzzata» sulla parete. Che siano scarabocchi, scritti o composizioni pittoriche, i graffiti luminosi digitali segnano una linea di demarcazione tra due comportamenti. Chi vuol lasciare un segno di sé si avvale della tecnologia per usare i muri come lavagne digitali. Chi, invece, è intenzionato a produrre degrado urbano lascia una traccia fisica. Nel destinare risorse al decoro della città, sarebbe bene indirizzarne una certa quantità all’uso di applicazioni digitali per proiettare figure, segni e messaggi di varie dimensioni, colore e lunghezza di tempo in un luogo fisico. È questo un modo efficace per discernere il grano (graffitismo artistico, espressioni di protesta, messaggi) dal loglio (i brutti codici usati dai «bravi» per sfiancare l’identità urbana e i diritti di proprietà).

Editoriale di PIERO FORMICA apparso sul Corriere della Sera il 9 gennaio 2014

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