Le nuove star dell’arte
Ribelli, anticonformisti, a volte invisibili. I writer sono la prova che il talento fiorisce anche quando non è celebrato in un museo. ma cosa c’è dietro le loro provocazioni?
Lo spiega qui il critico
Articolo di Francesco Bonami apparso su Donna Moderna il 9 gennaio 2014
La chiamano “street art”: ovvero? A volte è solo cattiva arte fatta sui muri. Sicuramente, però, è l’arte più libera che ci sia. E ha come suo Dio ispiratore ancora adesso Keith Haring, artista americano morto giovanissimo e diventato in poco tempo una vera stella. Oggi sostengono che gli street artist, o meglio i graffitari, come si chiamavano un tempo, esprimano la contemporaneità più di colleghi quotati e dunque siano loro le stelle del momento, invece che i vari Jeff Koons, Damien Hirst, Maurizio Cattelan e via di seguito. Il che è un po’ come dire che i veri campioni nel calcio non sono quelli che scendono negli stadi, ma coloro che giocano al parco con le porte fatte con due borse da palestra. Possibile? Certo, il talento fiorisce anche quando non è riconosciuto e dove mancano ingaggi milionari. Ma vale sempre la pena di verificare. È vera arte se è innovativa. E ribelle Il graffitismo, così in auge da essersi meritato sul sofisticato canale Sky Arte una trasmissione, Street art , dedicata alle gallerie open air di Milano, Napoli, Taormina e Roma, ha una sua star indiscussa: il writer inglese Bansky. Se Haring aveva inventato un suo segno inconfondibile, dal tratto un po’ infantile, Banksy non ha la stessa carica innovativa. Al suo successo contribuisce molto, infatti, il mistero sulla sua identità. Ma se dovessimo dire chi è più bravo e originale tra l’invisibile britannico e l’italiano Blu, inserito tra i 10 migliori writer del mondo e la cui faccia è ugualmente sconosciuta, io il premio lo darei al secondo. La street art funziona se non è semplice decorazione del muro di una fabbrica o di una metropolitana, ma quando porta un messaggio di ribellione e di libertà. E poi va menzionato un altro aspetto: la linea fra vandalismo e arte della strada è molto sottile. Se Michelangelo avesse dipinto la Cappella Sistina sulla facciata di un palazzo nuovo di zecca sarebbe stato sempre un genio oppure un vandalo? Forse tutte e due le cose. Non c’è bisogno di nascondersi Naturalmente c’è graffitaro e graffitaro: esiste quello che frequenta le periferie dell’Europa del Nord e con il suo intervento rallegra e ravviva edifici fatiscenti e quartieri degradati, come un fantasioso imbianchino urbano, e quello che produce un segno unico, un logo riconoscibile, quasi un abito su misura per l’architettura. Allora sì che vale la pena di guardarlo e ammirarlo. Il guaio però è che, in entrambe le categorie, si trova chi provoca perché, invece di penetrare nell’animo dei suoi estimatori, vuole entrare per forza nei musei. Allora, caro ribelle, le tue incursioni all’alba non rappresentano un gesto di contestazione, ma solo una necessità dovuta al fatto che non trovavi gallerie che ti volevano mostrare. No, no, così non va, mon cher graffitaro. Il rischio un po’ te lo devi prendere, al pendolare che al mattino dall’autobus vede sul muro dell’ufficio la scritta “Smack” devi saper offrire un bel bacio. Certo, fare gli incendiari dell’arte non è facile. Infatti a Sten e Lex, un duo romano, l’idea di immolarsi alla causa della clandestinità come ha fatto Bansky, non piace tanto. Al punto che per realizzare un loro bellissimo gigantesco murale su un palazzo della Garbatella, a Roma, sono addirittura ricorsi al crowdfunding (la versione cool della vecchia colletta). Sten e Lex avevano bisogno di 10.000 euro per la loro opera pubblica e sono andati a chiedere i soldi in giro. Li hanno trovati. Segno che la street art affascina e attira l’attenzione anche in Italia. Eppure Haring e Basquiat erano diversi È bello pensare che chi non ha tempo di andare nei musei o nelle gallerie voglia ugualmente vivere immerso o circondato dall’arte e quindi apprezzi chi l’arte gliela crea attorno o sotto la finestra di casa. Di Keith Haring o Jean Michel Basquiat, i due idoli del mondo dei graffiti a New York negli anni ’80, però, non se ne sono più visti in giro. Forse perché per i due americani il graffito non era una professione o una categoria dell’arte, ma un mondo di vivere e incidere nel tempo. Erano “soul artists”, artisti dell’anima , che solo per caso si trovavano a lavorare su un marciapiede. E, lì per la strada, l’anima non la nascondevano; anzi, se la giocavano. Oggi invece fare lo street artist è un po’ come scegliere lo slalom gigante anziché la discesa libera nello sci. Si vuole sperimentare il brivido, ma si ha sempre una gran fifa di cadere.
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