Aiutiamo i writer a diventare grandi

Se andate a New York di qui al 24 agosto, vi consiglio di fare un salto al Museum of thè City of New York (al 1220 della Quinta Strada), dove è in corso una mostra di graffiti degli anni Settanta e Ottanta – The City as Canuas – raccolti e donati al museo prima della scomparsa dal collezionista Martin Wong. La mostra è significativa per immergersi nel clima della controcultura che si espresse nell’invasione di writer che, in quegli anni, coprivano di scritte, e non solo, ogni angolo disponibile di New York, a partire dai mezzi di trasporto.
Poi, le autorità decisero che era ora di voltare pagina, soprattutto per correggere l’immagine universalmente diffusa di una metropoli in disarmo. Nacque così il mito della Grande Mela, e la New York che vediamo oggi, scintillante e attrattiva, nonostante gli acciacchi della crisi. E i writer? Oggetti da museo, appunto. Ma la loro scomparsa non è stato solo frutto della repressione: leggendo le loro biografie, mi hanno colpito le parole di uno dei più rinomati graffitari dell’epoca, Sharp (al secolo, Aaron Goodstone), secondo il quale «non si può continuare a fare le cose che si facevano a quindici anni». E infatti, scorrendo le altre biografie, ho notato che quasi tutti gli ex writer lavorano oggi nell’arte, nella pubblicità, nella comunicazione, nei videogiochi. Insomma, la loro creatività, tra la quale si annidavano quelle di un Basquiat e di un Haring, non è rimasta confinata a uno sterile ribellismo senza prospettiva (quella che aggredisce tuttora le nostre città, dominate evidentemente ancora da una cultura da anni Settanta), ma ha trovato le condizioni per diventare mestiere, lavoro e impresa: un salto culturale da favorire a tutti i costi in Italia.

Articolo di SALVATORE CARRUBBA apparso su Il Sole 24 ore del 26 aprile 2014

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