LA STRADA COME ATELIER

Catania

Dagli anni Trenta ai giorni nostri: viaggio nella street art. Catania la celebra con un volto che guarda lontano e con una mostra. Due iniziative della Fondazione Terzo Pilastro Il bombardamento di Guernica a opera dell’aviazione hitleriana, con l’indignazione scatena negli artisti la creatività. Il pannello di Miró perduto Gli spagnoli all’Expo di Parigi del 1937, il “mat di Diego Rivera. E poi Banksy, Vhils e i ritratti s Il grande murale di Rivera: Frida Kahlo in primo piano, più in là l’architetto Lloy.

Una grande opera di Alexandre Farto, in arte Vhils, che domina il porto di Catania e la mostra “Codici Sorgenti – Visioni urbane contemporanee”, che sarà inaugurata il 16 dicembre a Palazzo Platamone, fanno in questo periodo di Catania la capitale della street art. Entrambe le iniziative sono promosse dalla Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele. Ma cos’è e come si sviluppa la street art? Prologo all’inferno. Nella storia dei murales e dei graffiti si potrebbe andare molto indietro fino alla “dama bianca” nelle grotte del Tassili o al bisonte europeo sulle pareti di roccia della Dordogna; per poi risalire passo passo attraverso le ere e i secoli, inventariando nuove figure di artisti, nuovi supporti e nuove intenzioni. Per restare nel nostro tempo si può però convenire che la storia cominci a Parigi, nel maggio del 1937, sotto la sorveglianza della Torre Eiffel. Siamo nel più lacerato degli Expo, mentre la Confédération générale du travail ha dichiarato lo sciopero e i lavoratori hanno deposto secchi e cazzuole, chiavi inglesi e cacciaviti. Gli unici a essere esonerati sono gli operai che lavorano al grandioso padiglione dell’Urss. Lavorano anche, lì di fronte, perché non sono francesi e tantomeno sono iscritti al sindacato, gli operai venuti dalla Germania per innalzare l’altrettanto monumentale padiglione del Terzo Reich. Tra magniloquenza nazionalista e magniloquenza comunista nell’Expo del ’37 per il modernismo non c’è molto spazio, tant’è che Le Corbusier un suo padiglione, poco più di una tenda, ha dovuto impiantarlo fuori del recinto dell’esposizione. All’ombra del padiglione tedesco, tanto più incombente e minaccioso dopo il 26 aprile, data del bombardamento di Guernica, José María Sert, un allievo catalano di Le Corbusier, ha però realizzato con disegni e materiali modernisti il piccolo, modesto contributo della Repubblica spagnola, che ha ben altro cui pensare. Il micidiale bombardamento di Guernica a opera dell’aviazione hitleriana con l’indignazione scatena negli artisti la creatività. Il padiglione spagnolo, comunque ignorato dalla grande stampa francese, sta per diventare uno dei luoghi mitici dell’arte del Novecento. Nel suo grande studio Pablo Picasso crea Guernica , mentre la sua compagna, la fotografa Dora Maar, documenta gli studi, foglio dopo foglio. Lo scultore Alexander Calder, americano e progressista, dona la Mercury Fountain (ora sottovetro, per la sua nocività, alla Fondazione Miró di Barcellona) in cui invece di acqua scorre del vero mercurio, non per intossicare i visitatori ma per protestare contro l’assedio dei franchisti alle miniere di mercurio di Almadén. Joan Miró, catalano da poco riparato in Francia con la famiglia, decide, anche se non fervente militante, di dare un suo contributo, anzi due, alla causa repubblicana. Produce una serigrafia Aidez l’Espagne da vendere a un franco e, privo di uno studio adeguato, dipinge in loco, appollaiato su una scala, un grande pannello costituito da sei moduli quadrati di un metro e ottanta di lato ciascuno. E’ il famoso Segador , il falciatore, di cui si conoscono fotografie in un bianco e nero impastato e qualche ricostruzione a colori non si sa quanto attendibile. Anche se l’autore non ha una precisa posizione politica, è difficile non vedere nel contadino che brandisce come un’arma la sua falce un richiamo esplicito alla kolchoziana che incrocia la sua di falce al martello dell’operaio nella scultura di Vera Moukhina che svetta aggressiva in cima al padiglione dell’Urss. Della sorte della fontana di mercurio si è detto, di Guernica si conosce il lungo soggiorno presso il Modern Art Museum di New York e il ritorno in Spagna, ritardato a lungo con il pretesto che il legittimo proprietario era il governo repubblicano spagnolo e a Madrid sedeva un monarca. Del Segador non ci sono notizie. Alla chiusura della esposizione fu spedito in Spagna al legittimo proprietario, ancora il governo repubblicano. Come la Repubblica andò a finire si sa, non si sa invece che fine abbia fatto il Segador . Brutta, si immagina, anche se c’è ancora chi si illude che i sei pannelli riposino addossati alla parete di fondo di qualche vecchio magazzino, mai più aperto dal tempo della guerra civile. Erano pannelli di celotex, prodotti dalla omonima società (Celotex Company) partendo dalla bagassa, residuo di fibre della canna dopo l’estrazione dello zucchero, o pannelli cemesto messi in vendita dalla Celotex proprio in quel 1937? Come si vede, il celotex era un prodotto naturale, innocuo, simile nelle componenti all’attuale plastica organica. Era leggero, poco costoso e soprattutto, ai nostri fini, accoglieva e tratteneva bene la pittura. Ma non era concepito per gli artisti, e nemmeno per gli imbianchini: presto diventava fragile, friabile. Se Miró avesse dipinto su celotex, il Segador sarebbe scomparso già da tempo, senza bisogno dell’intenzione o dell’incuria di qualcuno. Ma per riparare ai difetti del celotex, proprio in quel 1937 la ditta mise sul mercato i pannelli di cemesto. Come dice il nome, crasi di cement e di asbestos , erano di cemento ricoperto da uno strato di amianto, materiali che garantiscono uno la durata, l’altro l’incombustibilità. Nessuno sospettava allora i danni che le sottili fibre di amianto, se respirate, potevano provocare ai polmoni. Se fosse stato dipinto su cemesto, il Segador si sarebbe potuto salvare, almeno fino a quando un discendente dell’antico magazziniere non si fosse accorto del pericolo rappresentato da quei pannelli dimenticati. La questione della conservazione turba qualche attore della street art. Non desiderano il museo, fanno arte per cambiare l’ambiente e la gente, asseriscono i più, ma la questione della sopravvivenza turba un po’ tutti e tanto più gli artisti. Incredibili furono la gioia dell’ormai sessantenne Blek le Rat e la risonanza nell’ambiente quando nel 2012 sotto uno strato di manifesti che copriva il muro di una casa di Lipsia in Germania si ritrovò la replica della Madonna di Loreto del Caravaggio, che l’artista aveva dedicato nel 1991 a Sybille, la ragazza che sarebbe diventata sua moglie. L’introduzione alla più completa monografia di Alexandre Farto, in arte Vhils, pubblicata nel 2011 da Gestalten, la casa editrice tedesca specializzata in libri di immagini, è firmata da Marc e Sara Schiller, ovvero la coppia che gestisce il Wooster Collective, sito web e galleria nell’omonima strada di SoHo, a Manhattan, dedicati esclusivamente alla street art. Nel 2006, in occasione della riconversione di un edificio all’11 della perpendicolare Spring Street in palazzo di abitazioni, in collaborazione con l’impresa immobiliare che gestiva l’impresa, gli Schiller organizzarono l’11 Spring Street Project. Il palazzo divenne per tre giorni un laboratorio e una galleria. Molti degli artisti seguiti dal Collettivo accettarono di intervenire. Allo scadere dei tre giorni i lavori non furono cancellati, ma solo coperti. Un giorno qualcuno li avrebbe riportati alla luce. Era un riferimento esplicito alla capsula del tempo sotterrata nel sito dell’Esposizione universale del 1939; solo che per scoprirli non sarebbe stato necessario aspettare cinquemila anni, ovvero fino al 6939, come da istruzioni stampate in alcune migliaia di copie e depositate in altrettante istituzioni culturali del globo. Recuperare un murale dipinto da Robert Crumb e coperto da una mano di bianco è quasi un’ossessione per gli ammiratori del creatore di Fritz il Gatto e Mister Natural. La sconsolante risposta degli esperti è che l’operazione, che comporterebbe l’acquisto della casa dagli attuali proprietari che lo hanno fatto coprire, sarebbe remunerativa solo qualora le opere di Crumb arrivassero a costare come quelle di Michelangelo. Prologo in cielo. La casa su cui si trova coperto il murale di Robert Crumb è nel cuore del Mission District, il quartiere già latino di San Francisco. Americani di lingua spagnola abitano ancora nel quartiere, ma molti non hanno retto a quel fenomeno che con una parola dal suono sgradevole e dal significato per molti drammatico, per alcuni appagante, si chiama gentrificazione: un brutto neologismo nato nella terminologia sociologica inglese per indicare il cambiamento che avviene in una zona tradizionalmente popolare di una città quando le case vengono acquistate da gente con maggiori possibilità economiche. Il risultato è un esodo dei vecchi abitanti, verso altre zone o altre città. Ad andarsene sono spesso gli artisti non affermati, come succede un po’ dappertutto a San Francisco, “gentrificata” in generale dal fiume di denaro della new economy. Un esodo è in corso verso nord, lungo la U.S. Route 101, verso Portland nell’Oregon soprattutto. Ma anche se è stato coperto l’unico murale che Crumb abbia mai dipinto, Mission resta il centro, ancora vivo, dell’arte di strada. Ancora in ottobre dell’anno passato, capitando a Mission per nostalgia, ci si poteva stupire per l’abilità, la sicurezza, la facilità con cui Mel Waters, un muralista incaricato dal consiglio locale, con una bomboletta di vernice nera, una scala, un pennello applicato a un manico di molti metri, faceva sorgere dal muro un ritratto in bianco e nero di quello che forse è il vero genius loci del quartiere, Carlos Santana, il pioniere del rock latino, l’artista che ce l’ha fatta, ma che non ha dimenticato di essere il figlio di un violinista mariachi, che non è mai tornato da un tour senza offrire un concerto gratuito ai giovani della sua gente, che è ancora capace a sessantasette anni di organizzare un concerto con una band di studenti dell’high school locale dove si è diplomato. Nei murali di Mission ricorrono spesso i santi locali, come la pittrice Frida Kahlo. Non potrebbe essere altrimenti. I giovani pittori l’avranno vista in innumerevoli immagini, ma almeno una volta dal vero, per così dire. L’avranno vista in quello che può considerarsi l’arcimurale, conservato al city college di San Francisco. I loro nonni avranno potuto vederla in carne e ossa, quando seguiva instancabile il marito Diego Rivera che, giorno dopo giorno, eseguiva forse il più grande, il più complesso murale che la storia dell’arte ricordi. Fu il successo del Fap, il progetto federale per l’arte lanciato da Franklin Delano Roosevelt per sostenere gli artisti durante la Grande depressione, a suggerire agli organizzatori dell’Esposizione internazionale di San Francisco del 1939 di aprire in un hangar della Treasure Island una serie di atelier in cui gli artisti avrebbero eseguito le loro opere sotto gli occhi del pubblico. Diego Rivera, l’artista messicano che poteva vantare una formazione parigina e si dedicava a un’arte figurativa di intonazione popolare e di esplicito contenuto sociale, aderì. Per ottenere la commessa per Art in Action, dovette presentare il progetto del murale. Lo intitolò “Marriage of the Artistic Expression of the North and South of this Continent”. In una sequenza di scene, legate dalla traiettoria aerea della tuffatrice Helen Crlenkovich, che in costume olimpionico sorvola la Treasure Island a volo d’angelo rovesciato; intorno a un enorme idolo maya, cyborg in carne e ferro, si sviluppano i temi dell’unità culturale panamericana: dal “genio creativo del sud che nasce dal fervore religioso” alla “cultura creativa del nord che si sviluppa nella necessità di rendere la vita possibile in una terra nuova e vuota”. Vedere Rivera lavorare è uno spettacolo. Ritornare per scoprire quali nuovi personaggi sono entrati in scena è un gioco diffuso, almeno tra gli artisti di San Francisco. Quella donna al centro in primo piano, con gli orecchini di Picasso, è Frida Kahlo, al secondo matrimonio, sempre con Rivera. Il signore seduto sotto una colonna è l’architetto Frank Lloyd Wright. L’omino con i baffetti alla Hitler è Charlie Chaplin nel “Grande dittatore”. Hitler in persona fa terzetto con Mussolini e Stalin, il quale impugna la piccozza macchiata del sangue di Trotskij. La figura accovacciata di spalle dietro Frida è Rivera stesso. Perché mai il noto birichino tiene le mani di Paulette Goddard, moglie di Chaplin? Quando si avvicina il giorno di chiusura della fiera il murale non è ancora finito. Martedì 24 settembre 1940 Rivera interrompe ugualmente il lavoro, per assistere al concerto con cui l’Ascap, la società americana degli editori e degli autori, celebra con il venticinquesimo anniversario la soddisfazione di essere riuscita a estendere il diritto d’autore anche alle trasmissioni radiofoniche. Cinque giorni dopo la fiera chiude definitivamente. Rivera continuerà a lavorare ancora per due mesi al suo murale di ventidue metri e mezzo per sei e mezzo. Senza pubblico. La scena, alcuni attori, un protagonista. Please bring your own broom, portate la vostra scopa, diceva il post scriptum dell’appello allo sweep up del quartiere Goulou di Pechino. L’appuntamento era per il Primo maggio del 2013. L’invito era rivolto agli artisti: cinesi e stranieri. Uno dei motivi era la denuncia del programma (in corso) di bonifica dell’area, sulla base che gli hutong, i vicoli di case e negozi tradizionali, erano “polverosi, sporchi, insalubri”. Intanto gli abitanti venivano sloggiati per non tornare mai più. La polvere è importante, diceva l’invito. “E’ memoria e informazione, resto materiale e testimonianza. Possiamo condividere la polvere. La polvere dei nostri studi d’artista, la polvere dei nostri vicoli, la polvere dei posti dove siamo stati”. L’altro motivo era sentimentale e programmatico. Era la celebrazione del quarantesimo anniversario (più uno) di un’azione, di una performance, considerata seminale nella street art. ( Street Art, Street Life , Bronx Museum e Aperture, New York, 2008). Oltre la scopa serviva una paletta, per raccogliere la polvere. Come aveva fatto il Primo maggio del 1972 Joseph Beuys in Karl-MarxPlatz, nella zona occidentale di Berlino, dopo il passaggio della manifestazione leftista, con cui Beuys avrebbe potuto identificarsi se non fosse stato parecchio più radicale e meno movimentista. Con due studenti stranieri (si era dimesso o stava per dimettersi dalla accademia d’arte di Düsseldorf, che non garantiva la frequenza agli stranieri), una ramazza – o meglio, uno spazzolone – raccoglieva cartacce e quant’altro i manifestanti avevano lasciato al loro passaggio. Non era un restauro volontario, come quello dei milanesi accorsi all’appello del loro sindaco a cancellare le scritte lasciate sui muri della cerchia dei Navigli dai manifestanti anti Expo. Anzi. Trasformati in opera d’arte dal tocco salvifico dell’artista, quelle cartacce sarebbero state custodite in una “vetrina”, una delle teche in cristallo in cui l’artista, esponeva brandelli scelti del suo vissuto. Arte concettuale e fotografia sono voci importanti di quel grande cesto delle meraviglie che va sotto il nome di street art. Dalla fotografia (istantanee scattate a sconosciuti, incrociati per strada) parte Vhils per progettare i suoi grandi, per dimensioni e per intensità, ritratti. Presentare oggi Vhils, artista di strada, dopo che in Portogallo è stato nominato cavaliere dell’Ordem Militar de Sant’Iago da Espada (nonostante la dizione, cavalieri eccetera di quell’ordine non si diventa per fatti d’arme, ma per meriti letterari, scientifici e artistici), dopo che una sua opera è apparsa su un francobollo di una serie dedicata alla street art dalle poste celeri francesi, quando il suo nome e le sue opere compaiono in innumerevoli riviste e la sua bibliografia conta almeno tre monografie e le mostre collettive e personali si seguono con ritmo accelerato come le commesse, può sembrare pleonastico. Basterà ricordare che all’anagrafe di Lisbona è registrato con il nome di Alexandre Farto (tutti gli artisti di strada hanno un nome d’arte o di battaglia. Di qualcuno, come Banksy, perfino più celebre di Vhils, il vero nome non lo conoscono neppure i collezionisti, pronti tuttavia a staccare assegni importanti per il diritto di portarsi a casa, a proprie ulteriori spese, un pezzo di muro su cui l’artista ha spruzzato una delle sue immagini). Di Vhils basta ricordare che è nato (nel 1987) e cresciuto nel Margem Sul, la zona di Lisbona a sud del Tago, composta da quartieri raffazzonati negli anni Sessanta e Settanta, devastata da un’urbanizzazione incerta e scomposta, dove case e terreni edificabili venivano via per poco e i progetti non valevano i pochi soldi che costavano. Quartieri a venti minuti di macchina dal centro, collegato da un ponte intitolato al 25 aprile (1974), giorno della rivoluzione dei garofani, un ponte che nessuno della riva nord attraverserebbe volentieri se non per proseguire a sud, per le spiagge di un Algarve già moresco e irrimediabilmente (?) cementificato. Quartieri confino, quartieri margine, ma come altre periferie in giro per il mondo generosi terreni di coltura di writer e di artisti di strada, profeti di una salvezza per l’arte (complemento di mezzo) su muri di cinta sbrecciati, su pareti cieche e scrostate, in sinistri tunnel olezzanti da pubbliche comodità con lo sciacquone rotto. Già a tredici anni (nell’anno temuto del millennium bug) Alexandre esercitava il suo talento su muri altrui e su vagoni ferroviari in stallo nei depositi della stazione, imparava a lavorare in fretta a scappare rapido. Il book dei suoi lavori non bastò a farlo accogliere alla scuola d’arte. Si spostò a Barcellona, quando la scena era più internazionale, per passare a Berlino dove con i suoi fogli, i suoi progetti non ebbe problemi a iscriversi all’istituto d’arte. Elaborò una tecnica propria, in cui le bombolette spray, strumento e totem degli artisti di strada, erano sostituite (in parte) da mazzetta e scalpello. Non solo superò la tecnica dello stencil che il vecchio, vecchissimo (nato nel 1952) Blek le Rat, all’anagrafe Xavier Prou aveva introdotto a Parigi nel 1982, e che Banksy aveva ripreso in Inghilterra insieme al rat, immediato anagramma di art in francese (“l’unico animale domestico libero”), ma addirittura lasciò la pittura per la scultura. I suoi ritratti che guardavano (guardano) dalle pareti con l’asciuttezza e l’economia di sentimenti che siamo abituati ad attribuire alla gente portoghese (fado e saudade: non tutti i soggetti delle foto sono portoghesi, anzi: appartengono ciascuno all’ambiente, al contesto in cui Vhils sta lavorando, in Malesia come in California; ma tutti, donne e uomini, scrutano il circostante, sia una periferia degradata, sia il mare, senza stupore e sottilmente risentiti), i suoi ritratti erano ricavati scalpellando il muro come fosse un’immensa matrice incisa al bulino, già inchiostrata, pronta per il torchio e la stampa. Nel maggio del 2008, fu invitato da Banksy che, maestro della tecnica situazionista dei rovesciamenti di senso visuali e verbali, sedotto dal gioco di parole con il Festival di Cannes, organizzava il Cans Festival, ovvero il festival delle bombolette. Le pareti di un vecchio tunnel dismesso, servito un tempo all’Eurostar per andare e venire dalla stazione londinese di Waterloo, divennero per tre giorni il supporto, la tela su cui gli artisti invitati e i visitatori intraprendenti potevano spruzzare, dipingere quello che volevano, purché non coprissero l’opera di altri (la mitologica lotta tra King Robbo, graffitaro puro e il polimorfo Banksy, dalla creatività indemoniata, che avrebbe lasciato senza respiro il mondo dei graffiti a colpi di coperture e rovesciamenti di senso di uno stesso graffito, non era ancora iniziata). Arrivarono artisti da tutta Europa e dagli Stati Uniti, ma anche dal Brasile, dal Canada e perfino dall’Australia. Per Vhils fu la consacrazione internazionale. A distanza di sette anni è toccato a lui il compito gravoso ed esaltante di realizzare la Cappella Sistina dei graffiti, il suo più grande intenso ritratto, il volto di un uomo che da una batteria di silos nel porto di Catania interroga il mare: “L’intenzione di dipingere elementi umani, una faccia che scruta l’orizzonte – intessendola nel tessuto del territorio – è un tentativo di sottolineare la significativa relazione storica tra la gente, il mare e la terra, ma anche di esprimere qualcosa della realtà odierna in un momento in cui l’Europa testimonia una nuova crisi umanitaria, con la nuova ondata di migranti e di rifugiati, esprimendo la necessità che abbiamo di guardare in profondità nella situazione”.

Articolo de Il Foglio del 12 Dicembre 2015 di Sandro Fusina

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