Street art delle mie brame

IL FENOMENO

Danilo Bucchi a Catania, Matteo Basilè e Nicola Verlato a Roma , Felipe Cardeña, Max Ferrigno, Tomoko Nagao, Domenico Pellegrino e Stefano Gentile, insieme, a Milano, Yoshiyasu Tamura a Tokio. Sono sempre più numerosi gli artisti che escono da gallerie e musei per dedicarsi a facciate di palazzi e interventi in strada, senza per questo abbandonare la dimensione “classica” dell’arte a favore di quella dichiaratamente street. Questione di sperimentazione, filosofia, approccio. E, soprattutto, evoluzione. Se in passato, infatti, la street art ha lasciato muri e strade per entrare in gallerie e musei alla ricerca anche di un riconoscimento istituzionale e di mercato, oggi a uscire dai luoghi deputati sono gli artisti affascinati dalla dimensione viva dello spazio urbano, con le sue contaminazioni. Obiettivo, raccontare le diverse espressioni dell’arte. E, più probabilmente, liberarla dalle sue etichette. Perfino dalle sue mode. Insomma, svincolare la street art dall’etichetta “street” che, ormai, inizia ad andarle stretta, almeno per gli addetti ai lavori, nonostante il mercato ancora traduca in cifre con molti zeri le espressioni più tradizionali dei suoi big e non solo. Un esempio per tutti, gli interventi murali di Banksy che, “strappati” dal muro e messi all’asta, sono stati stimati tra 400mila e 700mila dollari, fino ad arrivare al picco di vendita di un milione di euro.

GLI INTERVENTI

La street art conquista pubblico e riqualifica edifici e intere aree urbane, ampliando le sue vedute e i suoi confini. L’ultimo – e il più evidente – esempio è quello di Street Art Silos, nel porto di Catania, dove a metà dicembre il portoghese Alexandre Farto, in arte Vhils, ha realizzato un lavoro monumentale – il più grande al mondo – alto quanto un palazzo di dieci piani e largo come un campo da calcio, donato alla città dalla Fondazione Terzo Pilastro. Qui sono stati in molti a mettersi in gioco e non solo nomi “da strada”. «Ho realizzato due facciate, mi hanno subito chiamato street artist ma io non lo sono – racconta Danilo Bucchi, che vanta due interventi monumentali a Catania e a Roma – Tutta la mia generazione a suo modo viene dalla graffiti art, a me interessava sviluppare il mio linguaggio senza influenze. A distanza di tanti anni, con un segno ormai deciso e riconosciuto da gallerie, sono stato invitato a fare i muri». Ed è arrivata l’inattesa “etichetta”. «Tanti hanno bisogno di categorie per comodità di archiviazione mentale – prosegue -la parola street davanti ad arte non aggiunge nulla: gli artisti sono artisti».

LE DIFFERENZE

Firma una facciata romana, a Tor Marancia, pure Matteo Basilè, che, non a caso, ha scelto di dedicarla all’artista Ai Weiwei, «paladino della massima libertà nell’ arte contemporanea». Romano pure l’esordio in strada di Nicola Verlato, newyorkese d’adozione, che a Torpignattara ha dedicato una facciata-mausoleo a Pier Paolo Pasolini: «Era da tempo che volevo realizzare qualcosa di pubblico. Quella murale è la dimensione del figurativo». A Tokyo a scendere in strada per la prima volta, nei mesi scorsi, è stato Yoshiyasu Tamura, mangaka e pittore. «Sin da ragazzo racconta – mi sono chiesto cosa sia l’arte e quale sia la differenza tra quella definita alta e quella ritenuta bassa. Volevo realizzare qualcosa che fosse a cavallo tra questi due estremi e tra l’arte privata e quella pubblica». Così l’arte, con la maiuscola della tradizione, supera i confini, di fatto, per ricongiungersi a se stessa. E alla sua storia. Non è un caso che Eduardo Kobra a New York abbia realizzato due ritratti murali di Warhol e Basquiat. Omaggio dell’arte a se stessa e al suo passato. È proprio a storia e controstoria del genere, dalle sue primissime espressioni, che Duccio Dogheria dedica il volume illustrato “Street Art”, appena edito da Giunti, che propone un viaggio attraverso secoli, visioni e opere, alla ricerca delle firme più significative e interessanti del movimento «oggi più capillarmente diffuso nel pianeta – sottolinea l’autore nell’introduzione – in ogni continente». Da Londra a San Paolo, da New York al Senegal, passando per il segno di Obey, Banksy, Sten & Lex, Blu e molti altri, e dalle due alle tre dimensioni, un’indagine sulle radici della dimensione condivisa del Bello. Senza confini di visione e tecnica. Perché l’arte è nata sui “muri”, praticamente insieme all’uomo, che ha colorato il suo orizzonte con i dipinti nelle grotte.

ARTICOLO DI VALERIA ARNALDI DEL MESSAGGERO DEL 4 GENNAIO 2016

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