R2: RUBRICA DE LA REPUBBLICA DEL 9 MARZO 2016

Street art S.p.a. 

Dalla protesta al business. Nati come espressione della controcultura, oggi i graffiti e gli interventi dei writer rilanciano interi quartieri facendo lievitare i prezzi delle case. Fino a diventare brand per le multinazionali. Il valore degli immobili in una zona riqualificata da queste creazioni aumenta del 20 per cento

Dalla ribellione al business. Nata come arte sovversiva e di denuncia, la Street Art è ormai un fenomeno di massa. Come il rap, il grunge, la letteratura pulp, è passata dalla controcultura al mainstream. Celebrata da esposizioni nei più prestigiosi musei, ingaggiata dalle amministrazioni pubbliche per riqualificare le periferie. E, ora, corteggiata anche dai grossi brand, che hanno intercettato il nuovo gusto dei consumatori e hanno deciso di cavalcare l’onda. E così la Street Art, dopo essere entrata a pieno titolo nell’Olimpo delle arti, ha iniziato a farsi strada anche nel mondo del business. Accompagna convention aziendali, sfreccia sulle strade delle città su nuovi marchi, come la serie limitata della Smart Forfour. Tant’è che Inward, organizzazione non profit che mette in contatto pubblici, privati e street artist, ha lanciato in questi giorni #StreetArtFactory per portare la Street Art dentro industrie, fabbriche, cantieri e aziende di tutta Italia. «Ormai nei consigli di amministrazione – dice Luca Borriello, presidente di Inward – quello che un tempo veniva visto come un fenomeno negativo inizia a essere accolto con interesse anche perché in tempi di crisi, dove di soldi ne girano pochi, ricorrere alla street art paga». Non è solo una questione di risparmio, ma di immagine. C’è chi lo fa per rilanciare un marchio, per rinnovare modelli vecchi, per raccontarsi, per integrare e armonizzare la propria presenza nel paesaggio urbano o per attirare clienti. Gli street artist vengono chiamati anche nell’organizzazione di eventi. Lo hanno fatto, tra i tanti, Eni e Enel.

Per Vincenzo Boccia, presidente di Arti Grafiche e candidato alla presidenza di Confindustria, è una passione antica. La sua azienda è stata ridisegnata proprio con un progetto di Street Art. Chi attraversa il confine tra Campania e Calabria può vedere lungo il paesaggio nove gigantesche B dipinte da creativi urbani italiani. Sono lo sfondo del capannone dell’azienda tipografica. Quando venne lanciato il progetto, Boccia ne spiegò così la filosofia: «I murales sono diventati un “pezzo d’azienda”, lo rivendichiamo con orgoglio». Di casi simili ce ne sono molti. A Milano, in via Resegone, svetta una ciminiera coloratissima. È dei Fratelli Branca Distillerie, storico marchio, che nel progetto di restyling ha trasformato un elemento architettonico imponente in un’opera d’arte firmata Orticanoodles.

Anche Ceres a Torino (San Salvario) e a Pomigliano ha riqualificato muri di periferia. E, tra i grandi brand della moda, Vuitton ha scelto di collaborare con Ben Eine.

E poi c’è il settore pubblico, in cui per ora sono coinvolti i Comuni, più di 200, che organizzano festival (in Italia sono 15), affittano muri, riqualificano quartieri. Nella capitale è accaduto, ad esempio, a Tor Marancia e a San Basilio, grazie anche al finanziamento della Fondazione Roma.

Ma anche i costruttori sono interessati. Una via l’ha già data Claudio De Albertis, alla guida dell’Ance, l’associazione dei costruttori, che nella sua veste di presidente della Triennale ha sempre supportato iniziative di creatività urbana. Ma molti altri, più prosaicamente, stanno cominciando a valutare l’affare. Perché, ormai in tutto il mondo, ci si è accorti che la Street Art fa lievitare i prezzi degli immobili.

Il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano stima che la riqualificazione dei quartieri con opere di arte urbana faccia aumentare i prezzi almeno del 20 per cento. E su alcuni annunci immobiliari comincia a spuntare la scritta “Con vista Street Art”. Certo, dipende anche dagli artisti. Secondo Collier International Italia alcune proprietà a Bristol e a Londra firmate Banksy hanno aumentato il loro valore di decine di migliaia di sterline. Ma non tutti gli artisti reagiscono allo stesso modo,

quando le loro opere nate per denunciare speculazioni in quartieri degradati, finiscono paradossalmente per diventare un fattore di gentrificazione. Celebre il caso di Blu che ha cancellato dai muri di Berlino Brothers e Chain, in polemica con il progetto di riqualificazione.

Ma, nonostante il riconoscimento pubblico e istituzionale, molti street artist continuano a finire in tribunale. Dopo le accuse a Obey, con tanto di breve arresto l’estate scorsa, per atti vandalici negli Stati Uniti, l’ultimo caso è quello di AliCè, condannata poche settimane fa (in primo grado) per imbrattamento dal tribunale di Bologna. La stessa città in cui il 18 marzo si aprirà la grande mostra Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, prodotta da Genius Bononiae (e voluta dal suo presidente, l’ex rettore Fabio Roversi Monaco) e da Arthemisia, che si presenta come la prima grande retrospettiva dedicata alla storia della Street Art. Con i murales “strappati” alla strada per finire nelle sale di Palazzo Pepoli, fra le polemiche e gli interrogativi di chi si chiede se così si possa ancora definire Street Art.

Una domanda che, viste anche le ultime tendenze del mercato, non si può eludere. «Siamo a un punto in cui bisogna fare una riflessione sulla Street Art in sé perché – nata come arte illegale – ha oggi perso questa sua natura ed è come se, in un certo senso, avesse negato se stessa» osserva Sabina De Gregori, esperta dei linguaggi del contemporaneo e autrice di Shepard Fairey. In arte Obey e Banksy. Il terrorista dell’arte (Castelvecchi). «Sempre più istituzioni stanno investendo nella Street Art, che è ormai entrata nel sistema dell’arte contemporanea – aggiunge De Gregori – Sicuramente una fase è finita e bisogna vedere che forma prenderà ora questa corrente».

Molti street artist, anche fra i più “puri”, vedono con favore, in realtà, l’apertura di musei e gallerie alle loro opere: «La collaborazione con i grossi brand mi sembra più una mercificazione dell’arte – afferma Lex – Ben venga, invece, il riconoscimento della Street Art nel circuito e nel mercato dell’arte contemporanea che è un modo più democratico di dare valore alle opere».

ARTICOLO DI BARBARA ARDÙ SARA GRATTOGGI

Una nuova estetica urbana condannata al successo

Chissà se gli street artist più arrabbiati saranno contenti: scoprire che le loro opere aumentano il valore immobiliare di un quartiere sarà motivo di orgoglio o un segnale di terribile imborghesimento? Vedere le grandi aziende che li inseguono è un segno di successo o di sconfitta? Possibile che il sistema abbia già digerito la loro carica di denuncia sociale, di bellezza eversiva, trasformandola in moda e moneta sonante? È già successo, e succederà ancora. I movimenti di estetica illegale prima o poi vengono assorbiti dalla cultura dominante, dal mercato, e si ricavano una nicchia di riguardo nel mainstream contemporaneo. (Basquiat e Haring insegnano).

Ma, in fondo, perché no? È la stessa ambizione dell’arte di strada a consegnarla ad un inconfessabile successo.

Dimenticate i “tag”, quelle firme spesso sgraziate e sporche che insozzano i sottopassaggi, i vagoni dei treni urbani, i parapetti delle periferie. E che dicono solo: “io esisto, e sono stato qui”. Dimenticate i guerriglieri armati di spray che stampano a colori sulle pareti il loro disagio sottoproletario. Siamo oltre i graffiti. La street art è diventata da tempo un’altra cosa.

Ha portato alla ribalta una generazione di artisti arrabbiati, consapevoli, ma molto ambiziosi: che pensano, e dipingono, in grande. Molti di loro vengono da scuole d’arte, e hanno mani felici. Conoscono l’arte della comunicazione e dei mass media: la loro è un’estetica efficace, pulita e veloce.

D’altronde ci sarà una ragione se Banksy è ormai celebre come Lady Gaga, se per i suoi manifesti Obama ha usato il linguaggio di Obey, grande firma della street art Usa. Non meraviglia che i grandi brand vogliano impossessarsi dei loro codici linguistici.

Sono global: girano per il mondo portando il loro segno da una città europea all’altra, molti di loro hanno un mercato e gallerie che li aiutano vendendo lavori di piccoli formato, sono talmente affermati che devono tutelarsi dai falsi, anche se si muovono sul confine dell’illegalità, in una zona borderline dove si rischia contemporaneamente di finire in tribunale per aver dipinto senza permesso e in un museo. È accaduto ad Alice a Bologna. E per qualcuno di loro il museo è una pena altrettanto severa di quella inflitta dal tribunale.

In Italia ormai sono un esercito: da Blu a Ogre, da Sten Lex a Albero Nero, da Pixel Pancho a Agostino Iacurci il catalogo è lunghissimo ed è impossibile citarli tutti. Condannata al successo, la street art è esplosa, la guerriglia visiva è diventata sempre più ufficiale, visibile, pubblica.

Molti Comuni si affrettano ad offrire immense pareti da affrescare agli artisti, si moltiplicano i festival, si chiudono gli occhi di fronte ai murales illegittimi. È nata una nuova estetica urbana e soprattutto Roma ne è diventata la capitale. I palazzi di interi quartieri hanno assunto forme e colori, i desolanti non-luoghi delle nostre periferie hanno ripreso uno straccio di riconoscibilità. Brutta, bella? Dipende. Ma, se c’è una forma di arte popolare, è questa: semplice, diretta, e non per questo scontata. A volte molto colta: se guardate i dipinti caravaggeschi di C215, o i soffusi ritratti di Axel Void ve ne rendete conto. Pitture gigantografate sull’orizzonte urbano che vengono direttamente dalla nostra storia dell’arte. Anche dall’astrazione, ultimo approdo di molti grandi affreschi: non più denunce sull’orrore del mondo, non solo pupazzi o supereroi dei comics, non più solo fulminanti battute visive.

Ma linee, geometrie, colori, mutuate dall’optical art, o dagli astrattisti del secolo scorso. Lo scopo è semplice: rendere più bella la metastasi della città. Anche l’estetica è una politica. Ed è strano che gli architetti non abbiano iniziato a progettare assegnando a uno street artist le facciate dei loro edifici. Ma i guerriglieri si rassegnino: prima o poi accadrà.

ARTICOLO DI GREGORIO BOTTA

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One Response to R2: RUBRICA DE LA REPUBBLICA DEL 9 MARZO 2016

  1. ENZA P.C. Rispondi

    10 marzo 2016 at 05:26

    “A volte molto colta: se guardate i dipinti caravaggeschi di C215, o i soffusi ritratti di Axel Void ve ne rendete conto. Pitture gigantografate sull’orizzonte urbano che vengono direttamente dalla nostra storia dell’arte. Anche dall’astrazione, ultimo approdo di molti grandi affreschi: non più denunce sull’orrore del mondo, non solo pupazzi o supereroi dei comics, non più solo fulminanti battute visive.
    Ma linee, geometrie, colori, mutuate dall’optical art, o dagli astrattisti del secolo scorso. Lo scopo è semplice: rendere più bella la metastasi della città. Anche l’estetica è una politica.”

    ARTICOLO CONDIVISIBILE, SE NON CHè: racconta ciò che pare stia funzionando bene all’estero.
    E l’estetica -politica- voluta per Milano è inquietante e molto irritante.
    Spuntano si spazi di street art ma…”da noi si preferisce che le opere di cui si parla nell’articolo siano legittimamente posizionate e affiancate al più desolante e vecchio degrado.”

    Si lascia tutta la devastazione vandalica così com’è, poi si posta un graffito decente qua e là. Null’altro. Intorno resta un tappeto di tag demenziali, sparse ovunque, che può rendere NAUSEANTE E PSICHEDELICO (nel senso che uno può temere di aver assunto sostanze allucinogene a sua insaputa) un viaggio in auto, tram o autobus, ed è soprattuto chi arriva qui straniero a Milano (nella osannata “bella Milano” a spot pubblicitari..). che prova la sensazione di ricevere un pugno nello stomaco.
    Chiedete a un guidatore di taxi di raccontare “lo stupore disgustato degli stranieri davanti all’aggressione delle tag vandaliche che violentano ovunque l’immagine della città”.

    Non si ripulisce nulla, non si incentiva la rIpulitura con NULLA, non si chiede ai cittadini il ripristino veloce del decoro (perché non si offre loro nulla in cambio.. o a sostegno economico, nulla di nulla). Il volontariato attivo si batte in totale solitudine. Mentre una o due chiamate ai pennelli in date precise decise dal Comune pare debbano emendare il colpevolissimo oblio istituzionale della tutela del pulito.
    Perfino le tanto sbandierate centraline dipinte dagli street art, con l’iniziativa Energibox, anche se belle e colorate sul davanti, dipinte spesso sopra una distesa di cartacce e etichette appiccicate che si rialzano dopo poco tempo, restano un evento ancorato a un concetto di sporcizia e menfreghismo. E una carenza grave l’assoluta mancanza di rispetto sia a Milano, sia a chi la vive, la ama e la abita. Chi dotto e competente segue questi eventi è avvisato…ma finge di non vedere, non sentire.
    A Milano pare che dove arriva una pennellata di colore, anche maldata si purifichi di botto ogni porcheria ancora ben visibile. Bhe.. no mi spiace non è così. Questo è un atteggiamento gravemente offensivo per l’intelligenza del cittadino e dei suoi inalienabili diritti alla tuteta della bellezza. Il cittadino così si scoraggia e smette di avere cura personale dei suoi spazi. Basta guardare le saracinesche abbassate la sera, anche in aree centralissime, per percepire il grado di disaffezione al senso di responsabilità per il decoro. Purtroppo i molti racconti roboanti, ma privi di sostanza, a lungo andare, è cosa nota, non incantano più.

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