Il segno di Banksy

Il presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, promotore della rassegna “Guerra, Capitalismo & Libertà”

In quei graffiti tre espressioni fondamentali della nostra civiltà

ROMA

La mostra “sull’artista noto come Banksy”, che dopo la mostra “Co.Br.A.” arricchisce ulteriormente l’attuale stagione di Palazzo Cipolla a Roma, è un evento eccezionale sotto molteplici punti di vista: innanzitutto, è la prima volta che così tante opere – oltre centocinquanta – di questo personaggio, considerato oggi il massimo esponente della street art a livello internazionale, vengono esposte in un museo; in secondo luogo, i temi – guerra, capitalismo e libertà – che la connotano e la definiscono organicamente in un unicum espositivo, sembrano essere da sempre, oltre che i dilemmi più urgenti della nostra società, le fonti primarie di ispirazione dell’arte di Banksy, un’arte caratterizzata da una forte componente di denuncia sociale. Alle soglie di un mondo in profonda trasformazione qual è quello odierno, la mostra di Palazzo Cipolla analizza le modalità di rappresentazione delle tre fondamentali espressioni della nostra civiltà attraverso il lavoro del più controverso e popolare artista e attivista contemporaneo: un anonimo street artist britannico che si fa chiamare Banksy. Questa esposizione, a mio avviso, è il perfetto e naturale coronamento del percorso che, con la Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, ho voluto intraprendere, già da qualche tempo, al fine di dare voce a una modalità di espressione – la street art, appunto – che rende l’arte immediata e accessibile a tutti, incastonandola nel nostro vivere quotidiano. Un fenomeno non accademico, ma vivo e vitale, che ho conosciuto nei miei anni giovanili a Los Angeles e Miami e di cui ho immediatamente intuito la grande portata e l’eccezionale efficacia comunicativa, tanto da dedicargli – sempre in collaborazione con la “999 Contemporary” di Stefano Antonelli e Francesca Mezzano, che cura anche questo progetto unitamente ad Acoris Andipa – l’iniziativa “Big City Life” a Tor Marancia a Roma, con la quale abbiamo riqualificato dal punto di vista estetico un intero quartiere (divenuto oggi meta di visite culturali), una parte della rassegna di arte internazionale “Icastica” ad Arezzo, nonché la mostra “Codici sorgenti” a Catania (città nella quale è stata realizzata la monumentale opera di Vhils, che decora i silos sul waterfront del porto con il volto di un anziano lavoratore siciliano che guarda con fiducia il mare, quel mare da sempre portatore di eventi per la sua terra). L’artista noto come Banksy, attivo dalla fine degli anni 90, ha utilizzato il luogo pubblico come spazio dove esporre il proprio lavoro, liberando il potenziale espressivo dei graffiti e ponendo di fatto le basi di quel movimento artistico globale che già era in gestazione con i grandi artisti statunitensi Basquiat e Haring, e – seppur in maniera embrionale – in Italia con Echaurren, ma che conosceremo solo più tardi con il nome di street art. Banksy, di fatto, prende in prestito il contenuto dei mezzi di comunicazione per criticarli. La fonte cui attinge per i propri contenuti è dunque la cultura convenzionale, ma il riutilizzo di tali contenuti comporta, in tutti i casi, una loro ridefinizione. Le opere di Banksy hanno sempre origine dalla contrapposizione di elementi differenti a livello semantico (e spesso anche formale). Nelle sue creazioni convivono, da un lato, nozioni di benessere, piacere, tranquillità e calma, dall’altro nozioni di tristezza, ansia, dolore e angoscia. Ancora una volta la Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, che ha ereditato la missione della Fondazione Roma Arte – Musei, dimostra di essere sensibile, per mio impulso, alle tematiche culturali del mondo che cambia e che ci circonda. Questa inclinazione è stata manifestata nel corso degli anni con l’attenzione riservata – ritengo con successo – oltre che a ciò che accade nel nostro Paese e in Europa, anche alle tendenze e agli avvenimenti più significativi che hanno interessato gli Stati Uniti d’America e il lontano Oriente.

I disegni sui muri, e dietro un artista che gioca a nascondino. Il mercato scalpita per acchiapparlo

Banksy, Banksy: così presente e caratterizzato nel suo segno, nel rapido tratto che anima il muro di un palazzo, di una fabbrica o di una casa, così fisicamente inafferrabile. Ma chi è questo Banksy, “l’artista noto come Banksy”? Sarà davvero quel Robin Gunningham di Bristol con cui l’aveva identificato otto anni fa un’inchiesta del Daily Mail, risultato confermato pochi mesi fa, per tutt’altra via, da un gruppo di scienziati della Queen Mary University, prestigioso ateneo londinese? Ha davvero perso l’anonimato la primula rossa dei graffiti, il pittore che dai primi anni Novanta mette in scena sui muri delle città la sua protesta contro l’establishment, il razzismo, gli eccessi del capitalismo? E cos’era poi questo gioco a nascondino: licenza d’imprimere il proprio marchio anche là dove magari non ti vorrebbero (non tutti sono artisti, gli street artist) senz’essere sorvegliato a vista? Maschera antisistema, con annesso rifiuto del circo mediatico. O timidezza, un po’ più forte del gaddiano “per favore, mi lasci nell’ombra”? E, pensando male per un momento, non gli sarà arrivata a un certo punto di questa strategia dell’occultamento l’eco di un Moretti d’annata: mi si nota di più se…? Dubbi leciti, ma forse inutili alla causa, perché non è il primo anonimo-pseudonimo nella storia dell’arte (forse solo il primo in un’epoca in cui tutti aspirano al proprio quarto d’ora di celebrità), perché gli riesce bene pur non vivendo in un eremo, anzi andando in giro per il mondo a dipingere muri, scrivendo libri, girando cortometraggi, parlando con artisti e trattando con collezionisti. Perché infine ci si può rassegnare al fatto che Banksy è la sua opera, i suoi graffiti, e quanto più questi sono pubblici – l’arte e il messaggio per la strada, senza biglietto d’ingresso, nella piena disponibilità dei passanti osservatori – tanto più è privata l’identità dell’autore. Anche nella grande mostra romana ideata e promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo (150 opere, compresa una cinquantina di copertine di dischi) Banksy c’è e non c’è. “L’artista noto come Banksy non è associato né coinvolto in questa esposizione museale, tutte le opere presenti provengono da collezionisti privati internazionali e nessuna opera è stata sottratta alla strada”, puntualizza una nota a margine della rassegna. E non c’è nemmeno il nome Banksy nel titolo, “Guerra, Capitalismo & Libertà”, che richiama comunque tre temi forti della sua poetica. Del resto, non voleva allestire una “mostra di Banksy” nemmeno uno dei curatori: “Altri esperimenti di questo tipo fatti nel mondo hanno avuto un sapore molto commerciale”, ha detto in un’intervista Acoris Andipa, titolare di una storica galleria d’arte londinese, principale mercante al mondo delle opere dell’artista in mostra a Roma. E solo di quelle non sottratte alla strada: “Ci sono figuri che con tecniche anche avanzate ‘staccano’ i disegni dai muri per venderli, ma lo trovo scorretto: l’arte di strada è pensata per tutti, non per essere venduta a prezzi altissimi”. Vero, tanto più che lo stesso Banksy (Mr Gunningham?) fa da calmiere, organizzando di tanto in tanto vendite pop-up. Come quella che improvvisò nel 2013 su un banchetto a Central Park, a New York, con alcune sue opere che si potevano portare a casa con 60 dollari. Ma è anche vero che il mercato poi fa il resto: il maestro del graffito di Bristol è ormai un fenomeno artistico e commerciale e la sete dei collezionisti – che attingono quando possono da quelle vendite, altrimenti rilanciano – ha fatto impennare i prezzi, con la conseguenza che il mercato dei Banksy ha raggiunto “vette assurde” (parola di mercante d’arte). Ecco allora che tra i meriti della mostra allestita a Roma nelle sale della Fondazione Terzo Pilastro Museo vi è proprio quello di ripristinare quel circuito pubblico – che è essenziale alla natura stessa della street art e che si è spezzato – “strappando” per qualche mese numerose opere non ai muri delle strade ma allo sguardo privato dei collezionisti, e lasciandoci comunque intendere il carattere evocativo-eversivo di quei disegni, anche se non fanno parte di un paesaggio urbano.

ARTICOLI DEL 6 GIUGNO, IL FOGLIO QUOTIDIANO

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